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Avventure di una mamma blogger


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Raspberry Sorbet per il Club del 27

C’è nella poesia un particolare tipo di componimento, breve, ispirato alla natura e con una metrica tutta sua, che si chiama haiku, nasce in Giappone molti secoli fa, ma come tutta la poesia, è immortale. Tre versi di cinque, sette e cinque sillabe ciascuno, che per la lingua giapponese diventano onji (per questo motivo in lingua giapponese ogni componimento di haiku contiene 17 onji).

Matsuo Basho (1644-1694) fu il “sommo poeta giapponese” di questo genere letterario.

Il suo pseudonimo è riferito ad un albero di banano –basho– che aveva piantato nel suo giardino.

Prima di lasciarvi la ricetta di oggi, vi trascrivo uno haiku di Matsuo Basho,

kono atari/me ni miyuru mono wa/mina suzushi

qui/raggiungono il mio occhio/solo cose fresche.

Sorbetto di lamponi da NO-bake desserts di Addie Gundry

  • 450 g circa di lamponi
  • 60 ml circa di latte condensato

Unite latte e lamponi all’interno di un frullatore e frullate fino ad ottenere un composto omogeneo.

Trasferite in un contenitore a chiusura ermetica e congelate quattro ore

Togliete dal freezer e suddividete in quattro porzioni (usate le ciotoline più colorate che avete)

Ho scelto questa ricetta per voi e partecipo al Club del 27 di Maggio la mia tessera n.100 .


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Turkish coffee ice cream

Se con un deca non si può andar via, come cantavano gli 883 negli anni ’90, lo si potrà fare dopo un gelato al caffè turco, garantisco.

Adoro la genialità della signora Henry e di tutte le furbamente dotate di ricettari in cui il concept è e sarà sempre la carta vincente per chiudere un pranzo, una cena, o qualsiasi altro evento degno di esser ricordato. In questo caso il concept è preso in prestito dalle strade di Istanbul, impregnate di odore di caffè al cardamomo, avvolgente quanto un abbraccio. Trasportarlo dentro un gelato è un attimo! E per questo autunno dai toni caldi, non c’è niente di meglio, tanto che partecipo al Redone di Novembre, l’ultimo di questo 2021, convinta di aver scoperto una ricetta di un furbo e di un buono da vendere. Ringrazio la squadra per la mia recente vittoria e da qui è tutto.

TURKISH COFFEE ICE CREAM, Menu Take me back to Istanbul

da How to eat a peach, Diana Henry

(traduzione di Stefania Orlando)

per circa mezzo litro di gelato


2 cucchiai di caffè espresso solubile

semi pestati o macinati provenienti da 10 bacche di cardamomo

300 ml di doppia panna da montare

175 di latte condensato zuccherato

  • Mescolare il caffè con due cucchiai di acqua bollente ed i semi macinati di cardamomo. Lasciare raffreddare.
  • A parte, montare la panna ed il latte condensato insieme, finché si otterrà un composto piuttosto sodo, quindi unire il caffè aromatizzato.
  • Versare il tutto in un contenitore, chiudere con un coperchio o con della pellicola e mettere in freezer.
    Non c’è bisogno di sbatterlo ogni tot numero di ore. Unica accortezza, diventando molto duro congelando, necessita di essere tirato fuori circa 20 minuti prima di quando si intende servirlo.

La ricetta è assolutamente PROMOSSA.


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Hopper eggs per il club del 27 giunto al suo quarto anno

Come tutte le cose che vengono a mancare quando le circostanze sono sfavorevoli, così viaggiare è senza dubbio una delle cose che, in questo periodo di forzata reclusione domestica, ci manca di più. E chissà quando questa piacevole esperienza sarà nuovamente possibile. Al momento sono giustificati solo alcuni rari spostamenti, nell’ottica di salvaguardare la salute di ciascuno, soprattutto dei più fragili tra noi. Allora, come possiamo, in qualche modo, sopperire a questa “mancanza”? Un modo c’è, e ci aiuta, in questo, la proposta del Club del 27, giunto oggi al suo 4° compleanno.

Ciascuno di noi vi porterà idealmente in un luogo molto lontano da casa, a gustare una tipica ricetta a base di uova, l’alimento che oggi vogliamo celebrare.

Io ho scelto per voi le Hopper Eggs, una caratteristica pietanza preparata nello Sri Lanka.

Spero di aver scelto una destinazione di vostro gradimento, ma se questo non dovesse bastare, oggi potete fare il giro del mondo con noi, mangiando uova preparate davvero in tutti i modi e in tutti i luoghi.

Qualcuno potrebbe obiettare che quello in foto sembrerebbe un semplice pancake, ma si sbaglia. Innanzi tutto, è preparato con una pastella a base di farina di riso e latte di cocco e richiede un briciolo di impegno in più.

In secondo luogo, bisognerebbe cuocerlo dentro un hopper, appunto, cioè il tipico pentolino a spondine alte che regala a questo dischetto di pane di riso una concavità, rendendolo un vero e proprio cestello dentro cui cuocere l’uovo.

Se, come me, ne siete sprovvisti, non demoralizzatevi, andrà bene la nostra classica padella.

C’è un motivo ulteriore che mi ha guidata nella scelta, questa colazione è gluten free, perciò ha il suo lasciapassare per la mia cucina. Se vi ho convinti a sufficienza, non vi resta che indossare il grembiule e mettervi all’opera.

Le indicazioni di viaggio, pardon di esecuzione, le trovate a seguire.

HOPPER EGGS tratto da “All about eggs” di R. Khong

Ingredienti

1/2 cucchiaino di lievito di birra secco

118 g di acqua calda e altri due cucchiai in aggiunta

136 g di farina di riso

2 g di sale

2 g di zucchero

(dopo circa tre ore di riposo)

57 g di latte di cocco

un pizzico di bicarbonato di sodio

1 cucchiaio d’olio di semi

6 uova

Salsa piccante per servire.

Procedimento
  1. Sciogliete il lievito in acqua calda, lasciando che si attivi per qualche minuto.
  2. Mescolate farina, sale e zucchero insieme. Aggiungete la soluzione di lievito e formate una pastella morbida.
  3. Coprite e lasciate riposare l’impasto per almeno 2-3 ore al caldo (pensate alle temperature ambiente nello Sri Lanka).
  4. Aggiungete il latte di cocco, coprite nuovamente e mettete ancora a riposo per un’altra oretta. Trascorso questo tempo, aggiungete il bicarbonato.
  5. Scaldate su fuoco medio un pentolino Hopper, oppure un piccolo wok, o, in mancanza di altro, una padella da omelette. In quest’ultimo caso, roteando il tegame sul fuoco, assicuratevi che si scaldi bene dappertutto, lati e fondo. Oleate pochissimo il suo interno, con l’aiuto di un pennello da cucina, per un risultato che non sappia troppo di unto.
  6. Dosate circa 30 g per volta, roteando la padella in modo che l’impasto ne ricopra i lati e tutto il fondo; continuate finche non avrete esaurito tutto l’impasto. Rompete un nuovo in ciascun cestino di riso e cuocete qualche minuto, con il coperchio chiuso.
  7. Sollevando il coperchio, dovreste osservare i bordi ben cotti e croccanti, che si staccano dai lati del pentolino, sollevandosi e l’albume visivamente cotto. In quel caso, con una spatola provate a toglierlo dalla pentola. Se risulta appiccicoso, necessiterà di un altro po’ di cottura.
  8. Ripetete l’operazione fino a consumare l’impasto.


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Cupeta, ed è subito festa.

Quello di cui abbiamo più bisogno, in questo momento storico, è senza dubbio un po’ di leggerezza, che non è superficialità, ma consapevolezza di come stanno realmente le cose e nonostante ciò avere il coraggio di planarci su, come farebbe una befana il sei di gennaio col sacco pieno di carbone nell’intento di atterrare nei pressi di un improbabile presepe che ha fatto il suo tempo.

Leggerezza è indossare una goffaggine che non ci appartiene ma che a volte è l’unica via di uscita da se stessi, per non prendersi troppo sul serio.

Leggerezza, poi, è anche incoscienza, quella che ti porta in cucina una domenica pomeriggio perché hai voglia di cupeta e la cupeta non c’è, ha disertato tutte le feste patronali limitrofe su territorio salentino.

E adesso che si fa? Come si andrà avanti, senza cupeta?

Una lunga storia di dolcezza non può finire così! E’ dal lontano 1287 che si hanno notizie di questa “conserva dolce”, come suggerisce il nome arabo qubbayt (avevate dubbi che c’entrassero gli arabi? io no…).

Durante il banchetto nuziale di Bona Sforza e Sigismondo I di Polonia (1517) la cupeta fu la regina dei dolci tradizionali offerti agli invitati.

Lo spettacolo deve continuare, siete d’accordo?

Allora, procuratevi una lastra di marmo (no, niente paura, non dovrete sbatterci la testa) e seguitemi in cucina.

Cupeta

da Cucina Salentina di Maria Lazari

Ingredienti

500 g di mandorle

500 g di zucchero

1/2 bustina di vanillina

Preparazione

Sgusciare, privare della pellicina le mandorle e tritarle grossolanamente. Aggiungere la vaniglia. Mettere in una pentola lo zucchero e farlo fondere a fuoco bassissimo, rimestando con un cucchiaio di legno. Quando è dorato, versare le mandorle, farle amalgamare con lo zucchero, versarle su un piano di marmo unto di olio, livellare con una spatola di acciaio portando la cupeta allo spessore di mezzo centimetro. Tagliare a pezzetti quando è ancora calda, prima che indurisca.

La bellezza inebria i sensi, ma la dolcezza riscalda i cuori.

(M. Mollica Nardo)


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Lecce tra “grammatica” ebraica e orecchiette

Nel cuore di Lecce, all’ombra di Santa Croce, è celato il Museo Ebraico della città, un contenitore culturale che finalmente si riappropria del suo contenuto, ovvero la sua memoria. Ci troviamo nell’antica Giudecca di Lecce, il quartiere che dal 1399 al 1541 ha ospitato una fiorente comunità ebraica che si riuniva attorno alla Sinagoga.

Della Sinagoga resta solo la porzione delle vasche, perché Carlo V, dopo la cacciata degli Ebrei, fece costruire la Basilica di Santa Croce, trasformando il volto di una città che fino a quel momento aveva accolto, integrandole diverse famiglie ebree dedite a varie attività commerciali, come la produzione di saponi, di formaggio e concia delle pelli.

Già gli Statuti di Maria d’Enghien del 1445 avevano pesantemente discriminato queste famiglie, imponendo loro di indossare un segno distintivo sul petto (un cerchietto rosso che anticipa il più tristemente noto segno imposto dai Nazisti nel secolo scorso) e riducendone la libera circolazione in città.

Così la Giudecca anche se inizialmente non nacque come “ghetto” di fatto lo diventò, fino a svuotarsi del tutto.

Nella foto di apertura è ritratta la Mezuzah, un piccolo rotolo di pergamena che riporta il versetto della Torah che tutti gli Ebrei ripongono in un astuccio che viene adagiato in un incavo allo stipite destro (fotografie qui sotto) della porta di ingresso e in diagonale, come ad indicare una direzione, che, probabilmente è prima di tutto una direzione interiore, lo Shemà Israel שְׁמַע יִשְׂרָאֵל “Ascolta Israele” (Dt 6,4).

Entrando nel Museo Ebraico di Lecce, sottoposto rispetto al manto stradale, si incontrano dapprima i miqweh, le vasche per purificarsi. Lavarsi prima della preghiera in sinagoga è un rituale obbligatorio dalla forte valenza spirituale. Bisogna immergersi totalmente, non basta bagnarsi appena. Le acque del fiume Idume che scorre sotterraneamente riempivano tali vasche, garantendo sempre acqua corrente, come era prescritto dalla Legge.

Ciò che invece rimane della Sinagoga che si trovava sopra le vasche è un’antica epigrafe quattrocentesca in eleganti caratteri ebraici, che riporta una parte del versetto di Genesi 28,17 “Non è questa la casa di Dio?” dalle parole di Giacobbe, che svegliatosi da un sogno eresse una stele nel luogo in cui aveva incontrato i Signore.

Tra gli oggetti custoditi nel museo, ad arricchirne la “grammatica”, ritroviamo alcuni utensili in argento dagli usi più svariati, come uno Yad per portare il segno sul rotolo della Scrittura (una bacchetta che termina con un indice in foto) ed una scatola da Besamim, cioè un porta spezie, che oggi farebbe la gioia di tutti i foodblogger, compresa chi vi scrive, sarebbe uno di quei props da foto food del giorno, per dire.

Fin qui la visita guidata mi aveva già incuriosita abbastanza, ma ad un certo punto trovarmi di fronte ad un pannello dedicato alla cucina ebraica mi ha del tutto affascinata. Cosa ho scoperto? Che probabilmente le nostre orecchiette, quelle tipiche della cucina pugliese e salentina sono state introdotte da ebrei provenzali che alla fine del Medio Evo si erano stabiliti nel Regno di Napoli.

A questo punto vi aspetterete un bel piatto di orecchiette ed i effetti oggi le ho preparate per pranzo, ma spero di non deludervi, dicendovi che il piatto di oggi è questa bella visita al Museo Ebraico di Lecce, che vi invito a fare di persona, perchè quello che vi ho raccontato io è solo un assaggio.

Buona estate!

P.s.

In corso la mostra dell’artista ADI KICHELMACHER, “Le tracce del treno della vita tra Arte e Documenti per non dimenticare”


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Zaalouk ovvero melanzane in vacanza

In principio non serviva a molto

La melanzana non godeva di una buona reputazione, lo dice la parola stessa. Ma anche per questo ortaggio può valere la teoria dell’anguria, teoria che, peraltro andrebbe applicata in molti campi, non solo quelli verdi.

Superato il test, la melanzana è entrata a buon diritto nelle cucine europee, anche nella mia, più locale. Oggi l’ho usata per questa “insalata”, lo Zaalouk di spezie, quasi una crema di melanzane insaporita da erbette e polveri che regalano un tocco orientale, che sembra di stare a Marrakech. Per caso ho detto vacanza? Non mi pare, ho scritto Marrakech, però, ora che ci penso, per una vacanza sempre a portata di mano si potrebbe applicare tutto l’anno la “Pomodoro Technique“, no tranquilli, non c’entra l’ortaggio, c’entra il genio italico con cui la tecnica è stata messa a punto ed il pomodoro è solo la forma del timer del suo inventore, che negli anni 80 proponeva un break intermittente di 5 minuti ogni 25 di lavoro, insomma

una vacanza diluita per ogni giorno della settimana, che poi potrebbe essere adattata alle proprie esigenze.

Da provare, vero?

Non prima di aver messo le melanzane ad arrostire, perché lo zaalouk non si prepara da solo, non ancora. Per tutto il resto c’è tutto il tempo del mondo.

Zaalouk di spezie

1 melanzana da 500 g

15 g di polpa di limone

10 olive nere denocciolate

paprika dolce qb

semi di cumino ql

1/2 spicchio d’aglio

foglie di menta

sale e pepe

  1. Arrostite le vostre melanzane (sulla brace sarebbe il modo migliore). Nel frattempo pelate il limone, prelevate due cubetti di polpa, tritate la menta e l’aglio, dopo averlo sbucciato, e sminuzzate le olive.

2. Quando le melanzane saranno pronte (e nel frattempo avrete fatto la vostra mezz’ora di vacanza) tagliatele per il lato lungo, sbucciatele e schiacciatele con una forchetta.

3. Aggiungete le spezie ed il resto degli ingredienti, mescolate e formate le porzioni con un coppapasta. Regolate di sale, condite con del buon olio extravergine di oliva e servite con del pane casereccio.

Non c’è nulla di più forte di quei due combattenti là: tempo e pazienza (L. Tolstoj)


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Coconut fudge con tre ingredienti

Cosa avete da farvi perdonare oggi? Niente paura, questi dolcetti al cocco vi otterranno ogni richiesta…ma di cosa si tratta esattamente? Per essere brevi, questa ricetta è la risposta “americana” ad un più indiano burfi perché approfitta della versatilità del latte condensato per rievocare i profumi di una lontana regione indiana e del suo Kopra-Pak. Lei, l’inventrice, è Meera Sodha e scrive per il The Guardian. Invece lei è la furbissima Stefania, fonte di tante furbate.

Americanata per americanata, prima di illustrarvi la ricetta, vorrei condividere un pensiero della senatrice (americana, appunto), Elizabeth Warren, in corsa fino a pochi mesi fa come “vice” del candidato Presidente Biden…

Conserva un po’ di spazio nel tuo cuore per l’improbabile.

Non te ne pentirai.

Cosa mi piace di questo augurio? Intanto la sua collocazione, cioè il cuore e non la mente. Questa collocazione racconta molto. Libera l’imprevisto da ogni calcolo e razionalità e lo veste di sorpresa, di stupore. E già, chi ha detto che l’improbabile, anche se ci scoraggia perché rompe una routine, debba necessariamente essere qualcosa da evitare?

Lo so, ci vuole coraggio a farsi scuotere come un albero da frutto, ci vuole coraggio a guardare le cose da un’altra prospettiva, ma volete davvero vivere con le vostre convinzioni senza gustare il sapore della novità?

Va bene così, ma almeno preparate questi coconut fudge, non sia mai che il cardamomo riesca a convincervi del contrario.

Coconut fudge

Ingredienti per 25 pezzi circa

  • 80g di farina di cocco e altri 40 g per la copertura
  • un tubetto di condensato zuccherato da 170 g
  • 1/2 cucchiaino di cardamomo in polvere (meglio se macinato fresco)
  1. Mettete il latte condensato in un pentolino, meglio se antiaderente, e cuocerlo su fuoco medio/basso mescolando spesso in modo che non si attacchi al fondo. (Va bene se caramella un poco, ma attenzione che non bruci).
  2. Quando arriva a leggera ebollizione versate la farina di cocco ed il cardamomo mescolando bene.Continuate a cuocere il composto per circa 4 minuti, finché il tutto starà insieme staccandosi dalle pareti della pentola.
    Per testare la cottura prelevate un pezzetto di impasto con un cucchiaio, fatelo raffreddare un poco e rotolatelo tra i palmi a formare una pallina.Se mantiene la forma, è pronto.
  3. Togliete quindi il tutto dal fuoco ed aspettate che sia maneggiabile, quindi formate tutte le palline (da circa 3 cm di diametro, oppure più piccoline come le mie).
    Rotolatele quindi nel resto del cocco e servite a temperatura ambiente o fredde in estate. Conservatele in una scatola ermetica in frigo.


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Pasticciotti senza glutine al cocco

Quando voglio bene a qualcuno, io cucino. Non importa se potrà sedersi alla stessa mia tavola, ma condividere una ricetta, soprattutto una ricetta per esigenze speciali, è già un punto di arrivo.

Quanto può essere mortificante non poter gustare un prodotto tipico di una tradizione locale per motivi legati ad intolleranze alimentari o a particolari condizioni che ne limitano l’assunzione? Solo chi ci passa attraverso, può saperlo. Noialtri possiamo solo immaginarlo.

Per questi e per tanti altri motivi stamattina mi sono chiusa in cucina, un po’ per non pensare, un po’ per pensare meglio e ho realizzato questi pasticciotti con una frolla senza glutine ed una crema al cocco senza lattosio e pochi zuccheri. Resta pur sempre un piccolo peccato di gola, ma davvero minuscolo, visto che gli stampi che avevo a disposizione erano proprio mignon.

D’altra parte, le cose buone andrebbero gustate a poco a poco, altrimenti se ne fa indigestione e si finisce per dare la colpa a chi colpa non ha.

Vi ho parlato abbondantemente del pasticciotto leccese in occasione della giornata nazionale dedicatagli dal Calendario del cibo italiano; fu una bellissima esperienza intervistare gli Eredi Ascalone di Galatina.

La mia ricetta è adattata a quella galatinese per ovvi motivi, ma la bontà di questi pasticciotti è indiscutibile, come la loro bruttezza 😉

Pasticciotti senza glutine al cocco

Ingredienti per 5 pasticciotti piccoli

  • per la frolla senza glutine

135 g di mix senza glutine

65 g di zucchero semolato

buccia di mezzo limone

90 g di burro (tradizionalmente strutto)

1 tuorlo (tenete da parte gli albumi)

zucchero a velo per servire

  • crema a cocco (quantità abbondante)

200 ml di latte di cocco

1 tuorlo

3 cucchiai di zucchero

3 cucchiai di farona di cocco

buccia di mezzo limone

  1. Lavorate velocemente gli ingredienti per la frolla e fatela riposare mezz’ora in frigo. La frolla senza glutine è più appiccicosa, se non siete abituati dovrete usare dei guanti e un po’ di pazienza in più.
  2. In un pentolino, su fiamma bassa, lavorate il tuorlo con lo zucchero, poi versate il latte di cocco, la buccia di limone e poco a poco anche la farina di cocco, che farà addensare la crema. Lavorate almeno dieci minuti, senza far attaccare la crema al fondo. Prima di utilizzare la crema nel ripieno, lasciate intiepidire.
  3. Foderate gli stampi con carta da forno, stendete i pezzi di frolla e accomodateli delicatamente negli stampi (è possibile che la frolla si strappi ma potrete ricomporla una volta messa nello stampo).
  4. Forate il fondo coi rebbi di una forchetta e farcite con un po’ di crema. Ricoprite con un altro strato di frolla, facendo coincidere i margini superiore ed inferiore.
  5. Spennellate la superficie dei pasticciotti ancora crudi con l’albume messo da parte ed infornate a 180 °C per circa 25 minuti.
  6. Servite con dello zucchero a velo e scaglie di cocco essiccato.


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Biscottini persiani

La ricetta di oggi è una delle più belle, nella sua semplicità tecnica.

Si tratta di semplici biscottini di riso, adatti anche ai celiaci, ma impreziositi da due spezie, le rose e lo zafferano, che hanno governato le rotte geopolitiche di due dei grandi imperi del passato, quello Romano a Occidente e quello Ottomano a Oriente.

Per prepararli seguite la ricetta in basso e munitevi di uno stampo. Io ho utilizzato uno di quei bicchieri da cristalliera col fondo a raggiera, insomma uno di quei bicchieri improponibili attualmente, ma utili per queste manovre di pasticceria leggera.

 

Se invece, avete voglia di chiacchierare un altro po’, posso raccontarvi esattamente da dove arrivano, o almeno la mia personale interpretazione.

 

La curiosità di voler realizzare dei biscottini persiani nasce da una scena di un film che credo di aver visto solo io, ma tant’è.

 

Ibrahim Golestan gira in diversi tempi e con molteplici interruzioni, il primo lungometraggio di finzione Mattone e Specchio, che parte da una piccola cronaca di due poveri amanti, per fare luce sull’atmosfera e sulle contraddizioni generazionali di un intero paese, la Persia, l’attuale Iran, all’indomani del colpo di stato del ’63. Il titolo del film è invece preso in prestito da alcuni versi di un grande poeta e mistico sufi del XIII secolo, Farid al Din Attar.

 

“Quello che i giovani vedono nello specchio,

gli anziani lo vedono nel mattone grezzo

 

Il film è drammatico, ha i sottotitoli, perché non è doppiato e la pellicola è stata restaurata di recente, difficilmente qualcuno sano di mente andrebbe oltre la prima scena, insomma, ma ad un certo punto, il giovane ed impacciato protagonista, volendo risolvere un grosso guaio in cui si era cacciato, chiude in casa la giovane amante, raccomandandole di non uscire per non farsi vedere dai vicini, e dicendole che se avesse avuto fame, avrebbe potuto mangiare dei biscotti. Eccoli, secondo me sono questi.

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Lo so, è un po’ forzata come interpretazione, ma è la ricetta a cui ho subito pensato.

Questi biscotti hanno anche altro di speciale, li ho preparati solo per persone che li hanno saputi apprezzare, e così vorrei che fosse ogni volta che preparo qualcosa, perché di solito ogni ricetta mi matura nel cuore.

Nan-e Berenji

Per circa 50 biscotti

-250 g di farina di riso
-125 g di zucchero a velo
-110 g di burro
-1 tuorlo d’uovo
-1 cucchiaio e mezzo di acqua di rose o sciroppo di rose
-1 cucchiaino di cardamomo in polvere
-½ cucchiaino di zafferano
-semi di papavero qb

  1. Lavorate col mixer il tuorlo d’uovo, lo zucchero e il burro ammorbidito, amalgamandoli bene.
  2. Aggiungete l’acqua di rose (io ho usato lo sciroppo), il cardamomo in polvere, la farina di riso e impastate ancora fino ad ottenere un impasto soffice. Se è necessario aggiungere altra farina.
  3. Su una superficie ben infarinata con farina di riso extra, stendete l’impasto ad uno spessore di circa 1,5 cm e ricavatene dei dischetti di circa 3-4 cm di diametro.
  4. Sistemate i biscottini su una teglia foderata con carta forno e spennellateli con l’infuso allo zafferano che avrete preparato sciogliendo mezzo cucchiaino di zafferano in due cucchiai di acqua bollente e lasciato riposare almeno 15 minuti.
  5. Spolverate con i semi di papavero.
  6. Cuocete in forno statico già a temperatura a 150° C per 8 – 10 minuti o, comunque finché saranno dorati.

 


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Brownies con tahina

Il brownie è un dolce americano che si prepara facilmente e, nella sua prima versione a fine ‘800 conteneva delle noci. Voglio sottolineare questo fatto perché sono stata redarguita, in maniera un po’ sgarbata, da uno chef, il quale sosteneva, e sostiene, che senza noci questa ricetta non si può fare. Bene, scrivo questo post per dimostrare esattamente il contrario. Scrivo questo post anche per un altro motivo …perché so che a qualcuno piacciono le mie ricette e questo motivo mi fa star bene. E se potessi invitare a cena questa persona, glielo preparerei. Se invece potessi prepararlo per lo chef di cui sopra, sappia che farebbe la stessa fine del cuoco invitato a cena dal personaggio di Shirley Jakson nel racconto “Invito a cena” e no, non sarebbe contento del finale.

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Ingredienti per 4 persone

  • 3 cucchiai di farina di cocco
  • 2 cucchiai di cacao amaro in polvere
  • 150 g di cioccolato fondente a pezzi
  • 3 cucchiai di olio di semi
  • 4 cucchiai di tahina
  • 2 uova bio
  • 60 g di zucchero semolato
  • 40 g di zucchero di canna
  • 1 cucchiaino di sale
  • 1 bustina di vanillina
  • 1 cucchiaio di miele di melata
  1. Preriscaldate il forno a 175 °C e foderate una teglia 20×20 con carta da forno, facendo sporgere la carta su due lati.
  2. In una ciotola lavorate la farina di cocco ed il cacao in polvere. Mettete a fondere il cioccolato insieme all’olio e un po’ di tahina.
  3. Sbattete le uova, con gli zuccheri a media velocità.
  4. Aggiungete sale e vanillina ed il cioccolato fuso.
  5. Unite i due composti, mentre in una ciotola a parte lavorate la melata con la tahina rimasta.
  6. Versate il composto al cioccolato nella teglia e livellate bene con una spatola. Sulla superficie versate la salsa di tahina e melata.
  7. Infornate per mezz’ora, controllando la cottura finale con lo stuzzicadenti.
  8. Lasciate raffreddare e tagliate in 16 porzioni.

 

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