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Avventure di una mamma blogger


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Cupeta, ed è subito festa.

Quello di cui abbiamo più bisogno, in questo momento storico, è senza dubbio un po’ di leggerezza, che non è superficialità, ma consapevolezza di come stanno realmente le cose e nonostante ciò avere il coraggio di planarci su, come farebbe una befana il sei di gennaio col sacco pieno di carbone nell’intento di atterrare nei pressi di un improbabile presepe che ha fatto il suo tempo.

Leggerezza è indossare una goffaggine che non ci appartiene ma che a volte è l’unica via di uscita da se stessi, per non prendersi troppo sul serio.

Leggerezza, poi, è anche incoscienza, quella che ti porta in cucina una domenica pomeriggio perché hai voglia di cupeta e la cupeta non c’è, ha disertato tutte le feste patronali limitrofe su territorio salentino.

E adesso che si fa? Come si andrà avanti, senza cupeta?

Una lunga storia di dolcezza non può finire così! E’ dal lontano 1287 che si hanno notizie di questa “conserva dolce”, come suggerisce il nome arabo qubbayt (avevate dubbi che c’entrassero gli arabi? io no…).

Durante il banchetto nuziale di Bona Sforza e Sigismondo I di Polonia (1517) la cupeta fu la regina dei dolci tradizionali offerti agli invitati.

Lo spettacolo deve continuare, siete d’accordo?

Allora, procuratevi una lastra di marmo (no, niente paura, non dovrete sbatterci la testa) e seguitemi in cucina.

Cupeta

da Cucina Salentina di Maria Lazari

Ingredienti

500 g di mandorle

500 g di zucchero

1/2 bustina di vanillina

Preparazione

Sgusciare, privare della pellicina le mandorle e tritarle grossolanamente. Aggiungere la vaniglia. Mettere in una pentola lo zucchero e farlo fondere a fuoco bassissimo, rimestando con un cucchiaio di legno. Quando è dorato, versare le mandorle, farle amalgamare con lo zucchero, versarle su un piano di marmo unto di olio, livellare con una spatola di acciaio portando la cupeta allo spessore di mezzo centimetro. Tagliare a pezzetti quando è ancora calda, prima che indurisca.

La bellezza inebria i sensi, ma la dolcezza riscalda i cuori.

(M. Mollica Nardo)


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Lecce tra “grammatica” ebraica e orecchiette

Nel cuore di Lecce, all’ombra di Santa Croce, è celato il Museo Ebraico della città, un contenitore culturale che finalmente si riappropria del suo contenuto, ovvero la sua memoria. Ci troviamo nell’antica Giudecca di Lecce, il quartiere che dal 1399 al 1541 ha ospitato una fiorente comunità ebraica che si riuniva attorno alla Sinagoga.

Della Sinagoga resta solo la porzione delle vasche, perché Carlo V, dopo la cacciata degli Ebrei, fece costruire la Basilica di Santa Croce, trasformando il volto di una città che fino a quel momento aveva accolto, integrandole diverse famiglie ebree dedite a varie attività commerciali, come la produzione di saponi, di formaggio e concia delle pelli.

Già gli Statuti di Maria d’Enghien del 1445 avevano pesantemente discriminato queste famiglie, imponendo loro di indossare un segno distintivo sul petto (un cerchietto rosso che anticipa il più tristemente noto segno imposto dai Nazisti nel secolo scorso) e riducendone la libera circolazione in città.

Così la Giudecca anche se inizialmente non nacque come “ghetto” di fatto lo diventò, fino a svuotarsi del tutto.

Nella foto di apertura è ritratta la Mezuzah, un piccolo rotolo di pergamena che riporta il versetto della Torah che tutti gli Ebrei ripongono in un astuccio che viene adagiato in un incavo allo stipite destro (fotografie qui sotto) della porta di ingresso e in diagonale, come ad indicare una direzione, che, probabilmente è prima di tutto una direzione interiore, lo Shemà Israel שְׁמַע יִשְׂרָאֵל “Ascolta Israele” (Dt 6,4).

Entrando nel Museo Ebraico di Lecce, sottoposto rispetto al manto stradale, si incontrano dapprima i miqweh, le vasche per purificarsi. Lavarsi prima della preghiera in sinagoga è un rituale obbligatorio dalla forte valenza spirituale. Bisogna immergersi totalmente, non basta bagnarsi appena. Le acque del fiume Idume che scorre sotterraneamente riempivano tali vasche, garantendo sempre acqua corrente, come era prescritto dalla Legge.

Ciò che invece rimane della Sinagoga che si trovava sopra le vasche è un’antica epigrafe quattrocentesca in eleganti caratteri ebraici, che riporta una parte del versetto di Genesi 28,17 “Non è questa la casa di Dio?” dalle parole di Giacobbe, che svegliatosi da un sogno eresse una stele nel luogo in cui aveva incontrato i Signore.

Tra gli oggetti custoditi nel museo, ad arricchirne la “grammatica”, ritroviamo alcuni utensili in argento dagli usi più svariati, come uno Yad per portare il segno sul rotolo della Scrittura (una bacchetta che termina con un indice in foto) ed una scatola da Besamim, cioè un porta spezie, che oggi farebbe la gioia di tutti i foodblogger, compresa chi vi scrive, sarebbe uno di quei props da foto food del giorno, per dire.

Fin qui la visita guidata mi aveva già incuriosita abbastanza, ma ad un certo punto trovarmi di fronte ad un pannello dedicato alla cucina ebraica mi ha del tutto affascinata. Cosa ho scoperto? Che probabilmente le nostre orecchiette, quelle tipiche della cucina pugliese e salentina sono state introdotte da ebrei provenzali che alla fine del Medio Evo si erano stabiliti nel Regno di Napoli.

A questo punto vi aspetterete un bel piatto di orecchiette ed i effetti oggi le ho preparate per pranzo, ma spero di non deludervi, dicendovi che il piatto di oggi è questa bella visita al Museo Ebraico di Lecce, che vi invito a fare di persona, perchè quello che vi ho raccontato io è solo un assaggio.

Buona estate!

P.s.

In corso la mostra dell’artista ADI KICHELMACHER, “Le tracce del treno della vita tra Arte e Documenti per non dimenticare”


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Pasticciotti senza glutine al cocco

Quando voglio bene a qualcuno, io cucino. Non importa se potrà sedersi alla stessa mia tavola, ma condividere una ricetta, soprattutto una ricetta per esigenze speciali, è già un punto di arrivo.

Quanto può essere mortificante non poter gustare un prodotto tipico di una tradizione locale per motivi legati ad intolleranze alimentari o a particolari condizioni che ne limitano l’assunzione? Solo chi ci passa attraverso, può saperlo. Noialtri possiamo solo immaginarlo.

Per questi e per tanti altri motivi stamattina mi sono chiusa in cucina, un po’ per non pensare, un po’ per pensare meglio e ho realizzato questi pasticciotti con una frolla senza glutine ed una crema al cocco senza lattosio e pochi zuccheri. Resta pur sempre un piccolo peccato di gola, ma davvero minuscolo, visto che gli stampi che avevo a disposizione erano proprio mignon.

D’altra parte, le cose buone andrebbero gustate a poco a poco, altrimenti se ne fa indigestione e si finisce per dare la colpa a chi colpa non ha.

Vi ho parlato abbondantemente del pasticciotto leccese in occasione della giornata nazionale dedicatagli dal Calendario del cibo italiano; fu una bellissima esperienza intervistare gli Eredi Ascalone di Galatina.

La mia ricetta è adattata a quella galatinese per ovvi motivi, ma la bontà di questi pasticciotti è indiscutibile, come la loro bruttezza 😉

Pasticciotti senza glutine al cocco

Ingredienti per 5 pasticciotti piccoli

  • per la frolla senza glutine

135 g di mix senza glutine

65 g di zucchero semolato

buccia di mezzo limone

90 g di burro (tradizionalmente strutto)

1 tuorlo (tenete da parte gli albumi)

zucchero a velo per servire

  • crema a cocco (quantità abbondante)

200 ml di latte di cocco

1 tuorlo

3 cucchiai di zucchero

3 cucchiai di farona di cocco

buccia di mezzo limone

  1. Lavorate velocemente gli ingredienti per la frolla e fatela riposare mezz’ora in frigo. La frolla senza glutine è più appiccicosa, se non siete abituati dovrete usare dei guanti e un po’ di pazienza in più.
  2. In un pentolino, su fiamma bassa, lavorate il tuorlo con lo zucchero, poi versate il latte di cocco, la buccia di limone e poco a poco anche la farina di cocco, che farà addensare la crema. Lavorate almeno dieci minuti, senza far attaccare la crema al fondo. Prima di utilizzare la crema nel ripieno, lasciate intiepidire.
  3. Foderate gli stampi con carta da forno, stendete i pezzi di frolla e accomodateli delicatamente negli stampi (è possibile che la frolla si strappi ma potrete ricomporla una volta messa nello stampo).
  4. Forate il fondo coi rebbi di una forchetta e farcite con un po’ di crema. Ricoprite con un altro strato di frolla, facendo coincidere i margini superiore ed inferiore.
  5. Spennellate la superficie dei pasticciotti ancora crudi con l’albume messo da parte ed infornate a 180 °C per circa 25 minuti.
  6. Servite con dello zucchero a velo e scaglie di cocco essiccato.


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Madeleines senza glutine ai capperi e zaatar

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C’è chi giura che raccogliere i capperi sia di un rilassante che noi umani non possiamo capire, e poi c’è chi ne mangerebbe tantissimi (e magari senza averli dovuti raccogliere).

Poi c’è chi li preferisce in salamoia e chi sottaceto.

E voi, come li preferite?

Così piccoli ma così preziosi per non essere conosciuti abbastanza! Lo sapevate, ad esempio, che sono ricchi in fibre, e che gli antichi Greci li usavano come medicinale?

La pianta del cappero è antichissima e spontanea, catalogata come casmofita, cioè capace di abitare luoghi molto ristretti, come le fessure delle rocce.

E infatti, prima che fosse estesa la sua coltura, spesso i suoi semi venivano soffiati all’interno di fessurazioni delle mura urbiche con delle cannule. Perciò, se vi stavate chiedendo come fa il cappero ad arrivare sulle mura cittadine, ora lo sapete 🙂

Cosa ci fanno i capperi dentro le mie madeleines, invece, ve lo racconto nella ricetta.

A proposito, le medeleines, che sono solitamente dolci e tipiche della Francia, hanno questo nome proprio in onore a colei che, secondo la tradizione, evangelizzò questa Nazione, Maria Maddalena e sono cotte dentro uno stampo a forma di conchiglia proprio a simboleggiare il pellegrinaggio a causa del Vangelo.

La mia versione è gluten free, per esigenze di famiglia, come saprete.

Ora vi lascio agli ingredienti di questa versione salata.

Una versione dolce la trovate qui.

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Per 12 madeleines

80 g di mix B per pane Schär

1 uovo

20 g di burro fuso e altro per imburrare gli stampi

2 cucchiai di capperi in salamoia

1 cucchiaino di paprika dolce*

2 cucchiaini di zaatar*

50 g di salsa di pomodori

latte se necessario

5 g di lievito in polvere per torte salate*

(* ingredienti da verificare per l’assenza del glutine controllando l’etichetta)

Procedimento

Unite gli ingredienti secchi e quelli liquidi, aggiungendo i capperi alla fine.

Imburrate gli stampi e versate una piccola quantità di impasto in ciascuna “conchiglia”.

L’impasto deve riposare in frigo almeno mezz’ora.

Successivamente, infornate a 200 ºC per i primi 5 minuti. poi ultimate la cottura a 180, per altri 7 minuti.

 

 


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La mia MuffinCake per Il Club del 27

 

 

Oggi emozione emozione!! Non ho vinto alla lotteria, però ho la tessera n.100 del Club più bello del web, il Club del 27…ebbene sì. Dopo anni in MTC mi sono fatta un regalo, bello bello, ed eccomi qua con un post che esce di 27, e sarà così finché non mi cacciano. Preparatevi a sopportarmi anche a fine mese, insomma.

Ma entriamo subito nel vivo: fino allo scorso mese questo spazio del MTChallenge approfondiva il Tema del Mese…da oggi un progetto nuovo, un libro intero su cui la community si confronta per poi darvi il meglio del meglio. Ovviamente, non fermatevi qua, andate a leggerle tutte le ricette! Vi assicuro che per le vostre papille gustative sarà come fare lo yoga o giù di lì. Siccome non so da dove iniziare, scelgo di presentarvi a grandissime linee il libro di Sarah Randell Marmelade: A Bittersweet cookbook , un ricettario in lingua inglese che raccoglie nella prima parte le ricette di una dozzina di marmellate, con varianti,  e abbinamenti – non sempre obbligati- con altrettante ricette in cui le marmellate trovano impiego. 26804115_1666525040074871_376345731_n

LEMON SUNSHINE MARMALADE (traduzione a cura di Chiara Picoco)

1 piccola mela (renetta) ca. 200 g
1,4 kg di limoni (ca. 11-12)
2 kg di zucchero semolato
1 cucchiaino di bicarbonato

Pelare e togliere il rosolo alla mela mettendo gli scarti su una garza doppia. Tagliare la mela a dadini e trasferirli in una padella con 4 cucchiai di acqua. Cuocere a fuoco lento, parzialmente coperto, per 10-15 minuti fino a quando non sarà morbida, mescolare di tanto in tanto e aggiungere acqua se necessario.

Nel frattempo tagliare i limoni a metà e spremerli raccogliendo il succo in un contenitore graduato, eliminare i noccioli e aggiungere un po’ di polpa al succo spremuto.
Tagliare le bucce di limone in quarti (eliminare prima le estremità) e sminuzzare la scorza mantenendo la parte bianca interna e metterla in una ciotola capiente. Aggiungere acqua al succo fino ad ottenere 1,5 l di liquidi e mettere nella ciotola con la scorza.
Unire le 4 estremità della garza formando un sacchettino, stringere e legare con lo spago mantenendo un’estremità abbastanza lunga da poterla tenere all’esterno della pentola. Mettere anche il sacchettino nella ciotola e sommergerlo con il liquido. Coprire e lasciar riposare tutta la notte.
Mettere la mela cotta in un’altra ciotola e lasciar raffreddare coperta.
Il giorno seguente versare il tutto in una pentola, compresa la mela cotta, tirare il sacchettino di garza a lato e portare ad ebollizione ridurre poi la fiamma e cuocere a fuoco lento per 30-45 minuti mescolando di tanto in tanto. A questo punto rimuovere il sacchettino spremendolo bene cercando di estrarre più pectina possibile e aggiungere lo zucchero – la marmellata sembrerà molto liquida ma continuare la cottura fino a quando lo zucchero non sarà completamente sciolto. Togliere dal fuoco e aggiungere il bicarbonato poi portare nuovamente sul fuoco (attenzione che inizialmente bollirà in modo vigoroso).
Aumentare il calore e far sobbollire per 20-25 minuti*

Lasciar riposare 15 minuti poi trasferire in barattoli sterilizzati, chiudere e lasciar raffreddare completamente.

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Credit Mai Esteve – Il colore della curcuma

NOTE

  • Seguendo alla lettera questo procedimento la marmellata manterrà il suo colore brillante, ma non si raddensa come ci si aspetterebbe da una marmellata. Probabilmente il tempo di riposo che in questo caso è stato di otto ore, non è stato sufficiente ad estrarre la pectina. L’indicazione era “tutta la notte”…perciò otto ore mi sembrava accettabile. Inoltre la tempistica indicata per la cottura, a mio avviso, è vaga. Occorrerebbe suggerire un qualche trucchetto, una prova, per saggiare la consistenza della marmellata, evitando di caramellare tutto o scurire troppo il colore brillante che invece la caratterizza. Indubbiamente l’autrice scrive per un pubblico esperto in marmellate 😉

*I tempi di cottura, in realtà, sono stati quasi raddoppiati (!)

 

Per fare la marmellata, o qualsiasi conserva, la materia prima deve essere di ottima qualità e possibilmente incontaminata. Sarà superfluo, ma a me piace insistere su questo punto.

Nella fattispecie ho utilizzato dei limoni da agricoltura biologica che riesco a reperire a metro zero grazie ad un gruppo di acquisto solidale. In particolare, la varietà di limoni si chiama Limetta di Galatone, sono piuttosto piccoli ma molto succosi. Si tratta di alberi poco diffusi, conosciuti anche come “Limetta romana”, “Limoncella” o “Patriarca”, di origine indiana. La maturazione è proprio in questa stagione. Nel Salento la loro coltivazione è limitata a giardini storici e piccole collezioni agrumarie. (Varietà frutticole tradizionali del Salento, di F.Minonne)

Ora, bando alle ciance e venite a vedere come ho scelto di impiegare questa buonissima marmellata di limoni.

MUFFIN CAKE DI PERE, DATTERI E MARMELLATA CON CRUMBLE

ALLA NOCE MOSCATA

liberamente tradotta dall’originale

150 g di burro

2 banane medie mature

2 pere mature ma sode

150 g di datteri di Medjool snocciolati

3 cucchiai della marmellata preferita (per me Lemon Sunshine)

1 arancia (solo zeste)

175 ml di mascarpone (in originale “double cream”)

100 g di zucchero semolato

2 uova grandi

250 g di farina auto-lievitante (non meglio specificata, perciò io ne ho usata una senza glutine!)

1 cucchiaino colmo di lievito in polvere

1 cucchiaino di noce moscata grattugiata al momento

un pizzico di fiori di garofano in polvere

Per la copertura di crumble

40 g di burro freddo a piccoli pezzi

50 g di farina autolievitante

40 g di zucchero demerara

25 g di fiocchi di avena (per me di mais)

1 cucchiaino di noce moscata appena grattugiata

Procedimento

Preriscaldare il forno elettrico a 200°C. Fondere tutto il burro e lasciarlo raffreddare un po’. Pulire e schiacciare le banane. Aprire le pere e tagliarle in piccoli pezzi (non è necessario togliere la buccia, ma io l’ho fatto) e spezzettare anche i datteri.

In una ciotola, mischiare insieme la marmellata, le zeste, il mascarpone, lo zucchero, le uova ed il burro fuso.

Per preparare il crumble di copertura, strofinare il burro con la farina fino ad ottenere delle briciole, poi unire allo zucchero, cereali e noce moscata.

Aggiungere i 250 g di farina in una ciotola più capiente, insieme al lievito e un pizzico di sale, poi aggiungere la noce moscata, i chiodi di garofano, banane, pere e l’impasto.Amalgamare il tutto senza lavorarlo troppo.

Stendere i 3/4 dell’impasto in una teglia sagomata di 23-24 cm leggermente imburrata (io ho usato carta da forno). Cospargere con i datteri, poi aggiungere il resto dell’impasto, e il crumble di rivestimento. Cuocere in forno per un’ora, finché ringonfia e si assesta al centro. Dopo 45 minuti controllare e se è troppo scurito in superficie, coprire con un foglio (vi consiglio vivamente questa accortezza, io non l’ho coperta e infatti si è annerita).

Lasciare raffreddare in teglia.

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Il fu Alexander ovvero “spunzali” in agrodolce per l’MTC 69

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I cipollotti consumati freschi e che si raccolgono prima dell’ingrossamento del bulbo della cipolla sono chiamati sponzali sponsali, un termine di chiara derivazione latina [sponsalis] , ma vi siete mai chiesti il perché di tale denominazione?

Il riferimento al matrimonio è contenuto nei termini “sponsalis”- coniugale e “sponsus” -sposo.

Nella storia del diritto è la promessa di matrimonio, cerimonia in cui in passato era offerto, durante il banchetto, il cosiddetto “calzone degli sponzali” una torta salata ripiena solo di sponzali, di cui si utilizza anche la parte verde.

Grazie al progetto “Biodiversità delle Specie Orticole della Puglia (BiodiverSO), lo Sponzale rosso di Acquaviva è stato inserito nel 2015 nell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali (PAT) della Puglia, avendone verificato l’utilizzo alimentare nella cucina regionale da oltre 25 anni.

Questo accenno ad un prodotto agroalimentare così singolare era necessario per farvi conoscere l’ingrediente di oggi, perchè  sarà quello che ho scelto di utilizzare nella sfida di gennaio dell’MTC.

Siamo arrivati all’edizione numero sessantanove, dedicata alla Cucina Alcolica su scelta di Giulia del Blog Alterkitchen in qualità di vincitrice della scorsa edizione.

Ora devo prima confessarvi che nella mia vita, giunta alla soglia dei mitici 40, ho bevuto un solo cocktail una sola volta. Ricordo benissimo quell’uscita di vent’anni fa in un localino molto in voga in quegli anni, nel centro storico di Lecce.

Il posto si chiamava Cagliostro, tuttora meta “turistica” anche di vip dello spettacolo. Ricordo l’imbarazzo nella scelta, perché per me erano tutti uguali – i cocktails.

Fosse stato oggi, avrei l’infografica della Dany e tutto sarebbe stato più easy…

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Ad ogni modo, la scelta cadde su un presunto rassicurante Alexander. Che confermo anche per la sfida. Secondo me lo conoscete tutti! Però datemi la soddisfazione di rinfrescarvi la memoria:

Alexander

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Foto da iba.com

After Dinner Cocktail

  • 3 cl Cognac
  • 3 cl Créme de Cacao (brown)
  • 3 cl Fresh cream

 

Ed ecco in cosa l’ho “trasformato: cipollotti in agrodolce…non uccidetemi! Ho utilizzato le due parti alcoliche al posto del più classico aceto e zucchero, dopo aver sbollentato i cipollotti -e versato vagonate di lacrime, perchè pulirli e tagliarli è stata l’esperienza più lacrimosa della mia vita…- li ho passati in forno con un mix alcolico realizzato proprio con l’originale Créme de Cacao brown ed un più italiano Brandy, il Vecchia Romagna al posto del cugino francese Cognac.

La Fresh Cream è diventata una salsa bechamel a partire dal latte.

So di non aver prodotto un capolavoro supermegagalattico, ma è sempre un punto di partenza! Nasce così il “Fu Alexander”. A tavola ha riscosso gran successo come contorno, ma potete offrirlo anche in apertura 😉

Ingredienti

1 kg di spunzali

1 cucchiaio di brandy o cognac

1 cucchiaio di Créme de cacao

olio evo

sale q.b.

Bechamel

500 ml di latte

50 g di burro

50 g di amido di mais

3 g di sale

noce moscata (facoltativo, come anche in alcune versioni del cocktail)

Pulire gli spunzali prendendo la parte più interna, lavarli, tagliarli grossolanamente e sbollentarli in abbondante acqua salata. Scolarli e finirli di cuocere in una pentola con l’olio ed il mix alcolico. Formare delle monoporzioni* in terracotta da passare in forno caldo pochi minuti, dopo averle condite con la besciamella.

*le monoporzioni richiamano l’idea del cocktail 😉

 

 

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Foto aggiunta 

Con questa proposta partecipo

alla sfida n. 69 dell’MTC

“La cucina alcolica”

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Fonti:

PRESI IN ORTAGGIO, Otto prodotti straordinari della Biodiversità Pugliese, di M. Renna e P. Santamaria. Ed. Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”.

 

Cucina Salentina di L. Lazzari, ed Congedo.

 


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Una zuppa di rape per il Calendario del Cibo Italiano

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Oggi sul Calendario del Cibo Italiano troverete diversi spunti per consumare al meglio le rape, qui da me le rape sono quelle verdi con le cime e ne avevo disponibili da agricoltura biologica, in particolare una produzione locale e a metro zero.

Niente di meglio di una zuppa calda per riconciliarsi con le basse temperature stagionali.

Perciò ho preparato una corroborante zuppa, aggiungendo del miglio, che è naturalmente privo di glutine, della zucca gialla e delle patate. Buonissima!

Vi lascio la ricetta e scappo a lavoro:

Per una porzione 

300 g di cime di rapa

100 g di zucca gialla a dadini

2 patate var Nicola a dadini

60 g di miglio decorticato

300 ml di acqua, oltre a quella per le rape

cipollotti locali qb

olio evo qb

sale qb

Dopo aver pulito e tagliato tutti gli ortaggi, sbollentare le rape in acqua salate e passare in acqua fredda, scolarle e tenerle da parte. In un tegame far andare i cipollotti con l’olio e aggiungere via via zucca e patate, infine le rape. Versare la quantità di acqua richiesta, già tiepida, e infine aggiungere il miglio.Regolare di sale. Cuocere a fuoco basso per 30 minuti.

Servire calda.

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Una storia “a macchia d’olio” e una ricetta pugliese per il Calendario del Cibo Italiano

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Avvicinandomi a descrivere un alimento come quello di oggi, l’olio extravergine di oliva, così caratterizzante per la mia terra, mi ritrovo come davanti ad un grosso tesoro, nascosto dal tempo che si deposita come un custode troppo egoista e ti sfida a sfidarlo. Eppure, dovevo solo raccontare “qualcosa”  …eccomi invece qui a togliere il camice e indossare i panni di un archeologo, di uno storico o di un turista per caso.

Tutto ha avuto inizio da una delle tante passeggiate domenicali a Gallipoli, quando il nostro piccolo ometto inizia a chiedere con insistenza :”Mamma, mamma, il frantoio ipogeo”.

E già, cosa vuoi che sia?

Dopo qualche minuto, eccoci sottoterra, nel senso buono, all’interno di ambienti scavati interamente nel carparo pochi metri al di sotto del manto stradale, ambienti ricchi di fascino e mistero, testimoni di un passato storico e commerciale della città, esclusivamente legato all’olio.

Sono due a Gallipoli i Frantoi ipogei, quello di Palazzo Granafei, di proprietà dell’Ass. Gallipoli Nostra, e che si estende per circa 200 mq sotto i palazzi di via De Pace  e quello di Palazzo Briganti, visitabile solo su prenotazione.

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A dire il vero, il Salento presenta un reticolo sotterraneo di “trappeti” in grotta, alcuni dei quali sono stati ritrovati all’ interno di castelli e palazzi e di cui non esiste ancora un catasto ufficiale.

D’altra parte, in epoche remote, abitacoli rupestri offrivano un sicuro rifugio per gli abitanti del luogo che si mettevano al riparo da invasioni barbariche, o in età bizantina utilizzati come luoghi di culto e solo successivamente questi ambienti furono  riadattati per la lavorazione delle olive e l’estrazione di olio.

Tutto il vicino Oriente, in realtà, custodisce testimonianze simili, come ha dimostrato negli anni ’80 una campagna archeologica nei pressi di Tel Aviv, dove, secondo gli studi condotti dal dr. Schafer-Schuchardt, sono state rinvenute un centinaio di presse di fattura filistea (1000 a.C.), per non dimenticare la diffusione anche in Grecia e nell’ attuale Croazia.

Il principio che ha guidato nel corso dei secoli il mantenimento dei frantoi in luoghi sottoposti lo ritroviamo già in De re rustica (I sec. d.C.) dell’agronomo romano Lucio Giunio Columella, secondo il quale <<I frantoi e i magazzini da olio devono esser caldi poiché ogni umore al calore si scioglie e si addensa al freddo>>. Questa temperatura doveva essere compresa tra i 18° e i 20 °C in quanto venivano favoriti due passaggi fondamentali nella lavorazione delle olive, il deflusso dell’olio quando la pasta doveva esser sottoposta al torchio, e la separazione dell’olio dalla “sentina” quando poi avveniva il suo deposito all’interno di pozzi di decantazione.

Questo prezioso alimento è diventato, nei secoli, basilare nella dieta mediterranea, grazie alla sua equilibrata composizione, che vede prevalere gli acidi grassi monoinsaturi, soprattutto l’acido oleico. Queste caratteristiche chimiche rendono l’olio d’oliva particolarmente adatto a proteggere vasi e cuore, nonché in grado di abbassare i livelli di colesterolo “cattivo”, favorisce la digestione e difende le cellule dall’invecchiamento.

L’olio extravergine è quello meno acido,

in cui l’acidità è inferiore all’1%. 

 

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Parallelamente alla lavorazione dell’olio, dovette fiorire il suo commercio, di cui, per tornare a Gallipoli, il Porto della “città bella” ebbe un ruolo da protagonista.

Notizie storiche negli Archivi Ufficiali si ritrovano solo successivamente al 1484, anno dell’assalto da parte dei Veneziani a Gallipoli, che fu saccheggiata proprio di olio in deposito nella città.

 

Notizie scritte si hanno a partire dal 1503, anno in cui nel porto salentino venivano imbarcate circa 3210 some di olio (1 soma è pari a 154 lt) con destinazione Venezia.

Fu nel corso del XVII sec che Venezia iniziò ad avanzare pretesa di esclusività per l’acquisto dell’oro liquido nostrano – gli unici a non esserne contenti furono i Genovesi.

Nel 1774 Venezia insediò a Gallipoli un vice Consolato per seguire la faccenda più da vicino. Il commercio dell’olio ormai costituiva una pingue entrata per la città e per le Reali Finanze Borboniche.

Una annotazione del Barone di Eisenbach, a Gallipoli nel 1767 riporta che, nell’anno precedente dal porto della città erano partite 1395 some di olio destinato a tutto il Regno di Napoli.

Da Gallipoli – e per il mondo- partiva la “Mercuriale” del prezzo legale dell’Olio d’oliva per tutto il Regno, mentre a Napoli nasceva nel 1780 una vera “Borsa degli olii di Gallipolicon validità in tutta Europa.

La Borsa degli Olii fu abolita successivamente con decreto Reale dopo oltre un secolo, nel marzo del 1895.

Le Cultivar   Sin dall’epoca romana, nel Salento si coltivano due cultivar principali di ulivo: l’ “Ogliarola”, chiamata anche Ogliarola Leccese o Salentina, e la “Cellina di Nardò”,detta anche Saracena.

Relativamente alle caratteristiche, che avrete modo di approfondire oggi sul sito del Calendario del Cibo Italiano, posso dirvi che la prima è una varietà più gentile e meno resistente a intemperie e malattie, la seconda è più rustica con alte rese di raccolto, ma poca resa in olio, nonché precoce nella maturazione e con un gusto più piccante che lo rende adatto nei condimenti a crudo.

Esiste una terza varietà, il Leccino che dà un olio più delicato e profumato, ottimo in preparazioni più ricercate.

Oggi si parla anche di biodiversità di olive pugliesi e se ne contano a decine!Parliamo ad esempio della Butirra di Melpignano, la Carmelitana,la Cerasola, la Ciddina, la Cima di Bitonto,la Cima di Calabria, la Donna Giulietta e tantissime altre, tutte da custodire. Ma questa è un’altra storia, come altra storia è il presente assillato da Xylella f.

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La ricetta che ho scelto per la GN dell’olio extravergine d’oliva, è legata al territorio pugliese, in particolare a quello salentino e costituiva anche la dieta degli operai del frantoio durante i mesi autunnali. Per non dilungarmi eccessivamente, non vi ho descritto le condizioni border line nelle quali queste persone dovevano prestare la loro manodopera, vi basti pensare che per tutto l’autunno e l’inverno si allontanavano dal frantoio solo un paio di giorni, nelle feste comandate, sia per i ritmi lavorativi molto intensi sia per il fatto di dover andare incontro ad un lungo processo di pulizia personale che vi lascio solo immaginare, tanto era unta la loro pelle.

I pasti venivano preparati all’esterno ed era cura del padrone del frantoio farli consegnare quotidianamente. Oltre i legumi, erano di gran consumo diverse verdure di stagione, tra cui:

RAPE  ‘NFUCATE

( Rape affogate)

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Ingredienti per 4/6 persone

2 kg di rape

1 spicchio d’aglio

peperoncino

olio extravergine d’oliva  (cv Ogliarola) q.b.

sale q.b.

Mondare le rape, prendere le foglie tenere e le cimette, lavarle, sbollentarle. In un tegame mettere l’olio, l’aglio e, quando l’aglio sarà imbiondito, buttare le rape e finire di cuocere a pentola chiusa col coperchio*. A cottura ultimata spolverare di peperoncino tritato finissimo.

* affogate si riferisce all’utilizzo del coperchio in fase di cottura, come se fosse uno strumento messo per “affogare” più che per cuocere 😉

Fonti

  1. De Rossi, Il contributo dei Porti Salentini allo sviluppo economico della Nazione Ed. Martano 1969
  2. Barletta, Guida pratica ai Trappeti sotterranei nel Salento, Capone Editore 2010
  3. L. Lazari, Cucina Salentina, ed. Congedo
  4. AA.VV., Cultura che nutre, ed. Giunti Progetti Educativi

 

 


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Per la GN delle pittole, la mia versione gluten free nel Calendario del Cibo Italiano

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Mi perdonerete la foto dal cellulare, ma oggi non potevo mancare su questa tavolata virtuale, che ogni giorno il Calendario del Cibo Italiano imbandisce tutti i giorni. Trattasi delle pittole, frittelle di farina che possono essere farcite in tantissimi modi:olive, capperi, cavolfiore, oppure lasciate “bianche” affinchè il goloso di turno possa gustarle rotolate dentro il miele… Una prelibatezza semplicissima da preparare ma gustosissima, tra le preferite di mio figlio, il mio celiachetto! E già, queste in foto sono senza glutine, un piccolo miracolo che posso realizzare quando voglio, per fortuna. A dire il vero,le prepariamo solo nelle Vigilie dell’Immacolata e di Natale.

A Taranto si preparano all’alba del 22 Novembre, giorno di Santa Cecilia: è una tradizione secolare.

Ecco come prepararle:

150 g di farina senza glutine

125 g di acqua tiepida

10 g di lievito di birra

un pizzico di sale fino

olio di semi per la frittura.

Preparare l’impasto con qualche ora di anticipo, perché deve lievitare, in questo modo:sciogliere bene il lievito nell’acqua tiepida e versare poco alla volta sulla farina posta all’interno di una terrina, lavorando con una forchetta (altrimenti vi si appiccicherà tutto sulle mani!). Lasciare riposare almeno due ore con coperchio e in luogo riscaldato. Per abitudine, avvolgo la terrina con degli strofinacci per tenerla al calduccio. Trascorso il tempo di riposo, l’impasto fermentato va fritto poco per volta, usando un cucchiaino bagnato in acqua per ottenere delle pittole più piccole e tutte della stessa misura. Buon appetito.


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Un Pasticciotto per tutti!

Oggi sono particolarmente emozionata per il fatto che il Calendario del Cibo Italiano renda omaggio ad un tipico dolce salentino dedicandogli una intera giornata, la GN del Pasticciotto Leccese

Così ho avuto l’onore di contribuire personalmente all’evento con il contributo che potrete leggere sul sito di questo meraviglioso progetto dell’MTC.

Non poteva però mancare, in abbinamento all’originale/tradizionale, anche una versione gluten free, che vi propongo oggi qui sul mio blog. Che sia nato a Lecce o giù di lì, il Pasticciotto ci fa sentire a casa nostra, ancora oggi. Non si tratta semplicemente di una ricetta, ma di un vero e proprio segno distintivo per il nostro palato. Immancabile nelle colazioni al bar, in spiaggia, nelle ricorrenze…un vassoio di pasticciotti si regala per amicizia, in segno di gratitudine o anche senza un preciso motivo se non quello della gioia della condivisione. E se di condivisione si parla, è giusto che tutti abbiano le stesse possibilità di acceso. E’ per questo motivo che ho voluto provare a realizzare in casa un pasticciotto senza glutine (anzi, più di uno) ed il risultato è davvero rassicurante (per le mie ansie di mamma gluten free). Provare per credere!!!

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Per la pasta frolla:

250 g di farina per dolci senza glutine

125 g di strutto 

125 g di zucchero semolato

80 g uova

ammoniaca per dolci (la punta di un cucchiaino)

La scorza di un limone grattugiata sottilmente.

Per la crema pasticciera del ripieno:

500 ml di latte intero

4 tuorli

150 g di zucchero semolato

40 g di amido di mais

1 bacca di vaniglia

Per la lucidatura:

1 tuorlo sbattuto con un cucchiaio di latte

Come fare.

  • Per prima cosa preparate la crema che dovrà essere ben fredda per confezionare i Pasticciotti. Portate il latte ad ebollizione in una casseruola con fondo spesso, insieme alla scorza di limone o la vaniglia (a piacimento) quindi spegnete il fuoco e lasciate in infusione almeno 1 ora.
  • Sbattete bene le uova e lo zucchero miscelato alla farina fino a che non saranno pallide e gonfie. Rompete la crema con un paio di cucchiai del latte intiepidito ed mescolate con una forchetta. Accendete il fuoco sotto il latte e versatevi il composto di uova e zucchero quindi con una frusta, mantenendo la fiamma bassa, non smettete di mescolare. Quando la crema comincerà a sobbollire, controllate la densità preferita e spegnete senza superare i 3/4 minuti dall’inizio dell’ebollizione, per non rischiare di stracciarla. Una volta pronta, versatela velocemente in una ciotola di metallo. Appoggiate la ciotola in una ciotola più grande, dove avrete messo acqua e ghiaccio e cercate di raffreddare velocemente la crema mescolandola con la frusta. Quando sarà intiepidita, copritela con una pellicola trasparente a contatto, per evitare che si formi la “pellicina” e riponetela al fresco fino all’utilizzo.
  • Disponete la farina a fontana, mettendo al centro lo zucchero, lo strutto, le uova e gli aromi. Amalgamate tutti gli ingredienti con una forchetta senza intaccare la farina. Fatto questo, portate la farina sopra gli ingredienti umidi e lavorate il tutto velocemente cercando di non farlo riscaldare. Otterrete una pasta liscia ed omogenea. Fatela riposare in frigo almeno per un’ora o se preferite per tutta la notte (poi ricordatevi di toglierla almeno mezz’ora prima di lavorarla).
  • Imburra gli stampi per Pasticciotto e metteteli in frigo.
  • Su una spianatoia stendete con un matterello la pasta allo spessore di 3 o 4 mm.  Tagliatene dei pezzi sufficientemente grandi per riempire lo stampo e fuoriuscire dai bordi (vedi foto). Appiattite bene la pasta all’interno dello stampo quindi riempitelo con la crema fredda. Con un altro pezzetto di frolla, richiudete la crema e schiacciate la pasta lungo i bordi tagliandola delicatamente con le dita. Esercitate una pressione con le dita tutto intorno ai bordi e vedrete formarsi la caratteristica cupoletta.
  • Sbattete il tuorlo con il latte e spennellate bene il coperchio. Procedete alla stessa maniera fino alla fine degli ingredienti. Una volta pronti, mettete gli stampi in frigo per almeno mezz’ora, in modo da raffreddare ulteriormente la crema ed evitare che fuoriesca in cottura.
  • Mettete gli stampini in forno preriscaldato a 220°. La friabilità finale è data anche dalla cottura veloce ad alta temperatura. Dovranno cuocere dai 7 ai 10 minuti, dipende da forno a forno. Controllate il colore, che deve essere ambrato e lucido.
  • Una volta pronti, toglieteli e sformateli subito facendoli raffreddare su una griglia. Gustateli ancora tiepidi perché sono perfetti così!

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