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Avventure di una mamma blogger


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Zeppoline senza glutine per il calendario del cibo italiano

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Il progetto del Calendario Italiano mi sta davvero a cuore e mi spiace non poter contribuire più spesso di così. Oggi si celebra la Giornata Nazionale delle Zeppole di San Giuseppe  e per la sottoscritta è arrivato il momento di cimentarsi con queste meraviglie di pasticceria, con tutte le difficoltà del caso. Veramente, prima di lasciarvi la ricetta delle mie zeppoline senza glutine, non posso ignorare la figura di San Giuseppe, a cui sono abbinate. E per la verità, poche sono le informazioni su questo Santo, venerato come “Sposo di Maria” ma è pure la persona che si è curata della crescita di Gesù. Ora, senza addentrarmi in argomenti dottrinali, da cui poi non usciremmo più, vi dico solo che quest’uomo deve esser stato un grande papà. Non a parole, ma con i fatti. Nessuna frase gli è attribuita nei Vangeli, gli è dato solo un mestiere, quello di falegname, appunto concreto..mani che plasmano il legno. Sappiamo che è stato anche un “profugo”, in Egitto. Sappiamo che apparteneva alla dinastia dei Re. Sappiamo tante cose. Tutte informazioni utili per accettarlo come amico, compagno di strada. O anche no. Nessun obbligo. Ecco, se dovessi scegliere di sintetizzarne l’insegnamento, lo farei con le parole di don Tonino:-Non basta mettere in vita, bisogna mettere in luce.-

Credo sia ciò che ha fatto San Giuseppe con Gesù. Adesso però tengo fede alla mia promessa e vi presento le mie zeppoline.

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Ingredienti

200 ml di acqua

180 ml di farina di riso integrale

sale

1 noce di burro

1 uovo

buccia di limone grattugiata

crema pasticcera bianca e nera (al cioccolato fondente)

Se è difficoltoso preparare dolci senza glutine, l’impasto choux lo è ancora di più perché cotto due volte. Ma provarci può dare grandi soddisfazioni. Il consiglio è quello di lavorare a piccole dosi e per difetto di liquidi. Per questo motivo, non prendete le mie quantità per definitive, ma lavorate passo dopo passo e se necessario modificatele a vostro comodo.

Iniziamo. Portate l’acqua a bollore col burro e  salate. Versate la farina a pioggia e mescolate fin quando non si sia rappresa. (Potrebbe occorrerne più del previsto). Togliete dal fuoco e fate raffreddare bene. Su una spianatoia continuate la lavorazione, a impasto freddo, aggiungendo l’uovo e la buccia di limone grattugiata. (le uova, se più di uno, vanno aggiunte una alla volta). Aiutatevi con della carta da forno (questi impasti sono particolarmente appiccicosi).

Lavorate piccoli pezzi dello spessore di un dito e lunghi da 10-15 cm e arrotolateli su se stessi.Friggete le zeppoline e successivamente decoratele con della crema pasticcera. Si possono spolverare di zucchero prima della decorazione.

 

 

 

 

 

 


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Gubana senza glutine alle Gocce Imperiali

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Risalendo lo Stivale da Lecce, lungo l’autostrada Adriatica per mille e cento chilometri e undici ore, si raggiunge il cuore del Friuli Venezia Giulia. Ma diciamo che a scendere,secondo me, si fa prima…perché si torna a casa. A fine estate, questo viaggio lo ha fatto anche un fagottino di sette mesi, la mia nipotina, anche lei, come i suoi genitori, è nata “salentina” ma crescerà friulana. Così è la vita, talvolta. Si lasciano la propria terra e propri affetti, per una nuova terra, con nuovi affetti, ma non si dimenticano le proprie radici. Per tutti questi motivi, oggi mi cimento nella preparazione di un tipico dolce friulano, la gubana, cugina acquisita della putiza giuliana. Principalmente le differenze sono nel ripieno.

Ho letto per la prima volta la ricetta di questo dolce su un blog che adoro…“noci, uvetta, pinoli, fichi secchi, prugne secche, agrumi canditi, cioccolato, liquore, pangrattato, burro. Per la Gubana (friulana) la lista è questa. E per la Putiza (giuliana)? Soprattutto noci, uvetta, pinoli, rum e la scorza di un limone. In entrambi i casi l’involucro è una pasta soffice che ha bisogno di lievitazione.E la forma? Beh, la forma è la vera discriminante: l’impasto farcito è arrotolato su sè stesso, come una chiocciola, ma anche no. Per entrambi i dolci, naturalmente.” (A.M. Pellegrino, La cucina di Qb)

Ma è stato grazie al Calendario del Cibo Italiano che ho deciso di mettermi in gioco nella realizzazione di una Gubana (senza glutine per necessità) dopo l’invito di Giuliana Fabris del blog La Gallina Vintage e gli approfondimenti di Roberto Zottarautore di diversi libri  sul tema, tra cui Dolce Gorizia.

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Trattandosi di un contest, è lasciata un po’ di libertà sul ripieno -nel mio caso, ho dovuto anche togliere il glutine, sperando di non deturpare quello che è un dolce tipico- perciò, ho mantenuto le noci e i pinoli, però ho eliminato l’uvetta, per gusto personale, e ho scelto dei fichi secchi mandorlati, come li preparava mia nonna qui nel Salento. Poi ho preferito le prugne secche e dei cubetti di pesca essiccata, bagnando nel liquore entrambe. Il liquore l’ho scelto guardandomi sempre qui intorno e mi sono ricordata che a due passi da casa alcuni Monaci Cistercensi producono le Gocce Imperiali, un forte liquore aromatico a base di piante officinali ed erbe aromatiche, dal caratteristico colore giallo paglierino ed un profumo aromatico adatto ai dolci. Insomma, volevo nascondere in una ricetta friulana un po’ di casa, come fa mia mamma ad ogni partenza di mio fratello…nella valigia c’è sempre spazio per qualche souvenir mangereccio 😉

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La difficoltà principale è stata la lavorazione di un impasto privo di glutine, perciò poco elastico, tanto che già nel momento di arrotolarlo, si è aperto in alcuni punti. Impossibile fare a meno di un canovaccio, per aiutarsi nelle operazioni. Infatti, successivamente va arrotolato su se stesso e trasferito in teglia. Di una bontà unica, ottimo per accompagnare il caffè. La mancanza di glutine ha tolto certo molta della sofficità, ma non del sapore deciso e aromatico. La farcitura gustosissima si scioglieva in bocca. Insomma, questo dolce accoglie in se, come una valigia, tutto quello che di buono si trova tornando in famiglia e quanto di più buono si trova rientrando a casa.

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Il termine Gubana ha natali sloveni: deriva infatti da “guba” (increspare, far pieghe) e sta ad indicare quindi una preparazione piegata ed arrotolata. Esiste anche un documento ufficiale che fa risalire alla metà del ‘500 la presenza di questi dolci sulle tavole friulane, o giuliane.

[da La cucina di Qb, blog di A.M. Pellegrino]

La mia Gubana senza glutine

250 g di mix senza glutine per panificazione Conad

50 g di farina di riso

100 g di farina senza glutine per dolci e Torte AmoEssere

8 g di lievito di birra fresco

2 uova intere

65 g di zucchero semolato

70 ml di latte

60 g di burro fuso

per farcire

100 g di fichi secchi mandorlati

125 g di prugne secche denocciolate

35 g di pinoli

100 g di noci

60 g di pesche essiccate a cubetti

30 ml di liquore Gocce Imperiali

1 albume

1 tuorlo per spennellare il dolce prima di infornare

 

Procedimento

Sciogliere il lievito in un po’ di latte tiepido ed unirlo nella planetaria con il resto degli ingredienti fino ad ottenere un impasto liscio e sodo. Coprire e far raddoppiare. [In questo caso, dopo aver lievitato 10 ore, l’assenza di glutine non ha favorito il raddoppio, ma la lievitazione è comunque partita.]

 

Mettere in ammollo le prugne e i cubetti di pesca  nel liquore, tritare con il coltello tutti gli ingredienti della farcia, unirli in una ciotola con l’albume montato a neve.

Accendere il forno a 180°.

 

Rompere la lievitazione, stendere l’impasto sopra un canovaccio, farcire con il composto lasciando appena un po’ libero il bordo, arrotolare su se stesso e poi a chiocciola ma non troppo stretta. Spennellare la superficie con il tuorlo d’uovo sbattuto e spolverizzare con lo zucchero semolato.

 

Ungere una teglia o una tortiera da 24 cm di diametro e cucinare per circa 45′ circa nel forno statico già caldo a 180°. Sfornare, far raffreddare sopra una gratella e servire.


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Tagliatelle senza glutine per il Calendario del Cibo Italiano

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Come raccomandava il buon Artusi, “i conti devono esser brevi e le tagliatelle lunghe”!!! E’ l’unica raccomandazione che mi frullava in testa mentre mi cimentavo con le mie prime tagliatelle gluten free. Avrei preferito proporvele di farina di castagne, ma non ne ho trovata e ho optato per quella di sorgo. In fin dei conti ciò che mi importava era che fossero senza glutine, così da poterle proporle a tavola. Sono ancora da perfezionare, c’è da lavorare su lunghezze e spessori, ma erano di un buono che son finite pure queste. Grazie al Calendario del Cibo Italiano ho occasione di cimentarmi in tanti piatti della tradizione Italiana e, facendo di necessità virtù, provo ad imparare a manovrare farine non del tutto domabili, anche se questo cereale mi ha dato belle soddisfazioni in fatto di tenuta in cottura e sapore. Per la Giornata Nazionale delle Tagliatelle ecco la mia ricetta:

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Per una porzione

80 g di farina di sorgo

20 g di farina di risoi ntegrale

1 uovo

1 pizzico di noce moscata

Condimento

1 carota

60 g di pancetta dolce (o cotto) a dadini

1/2 cipollotto

1 noce di burro

 

Unire le farine in un robot, aggiungere la noce moscata e l’uovo intero e impastare a media velocità. Trasferire il panetto morbido su una spianatoia e appiattirlo con un mattarello utilizzando dei fogli di carta forno. Tenere da parte un po’ di farina perché sicuramente occorrerà aggiungerne una spolverata. Cercare di stendere la sfoglia quanto più sottilmente, anche se è consigliabile mantenere uno spessore di sicurezza per evitare rotture in cottura. Ritagliare e tenere all’aria per essiccare almeno tre quarti d’ora.

Portare a bollore una buona quantità d’acqua già salata e nel frattempo preparare un battuto di carote e cipollotto. Buttare le tagliatelle in pentola e cuocere almeno otto minuti, controllando che non si rompano e mescolando delicatamente di tanto in tanto.

Far andare una noce di burro in una pentola antiaderente, con pancetta e battuto di carote, coprire e far cuocere. Aggiungere acqua o brodo se necessario.

Scolare la pasta e mantecare in pentola con l’aggiunta del condimento.


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Cavolfiore cous cous per il Calendario del Cibo Italiano

L’ho chiamato anche ‘Il Cous cous Bugiardo’ perché all’apparenza potrebbe anche ingannare, ma nella realtà si tratta di cavolfiore crudo, frullato e condito.

Questo piatto veloce ma gustoso è perfetto per una giornata Detox, senza abbandonare i piaceri del palato. Provare per credere. Oggi, in particolare, sul Calendario del Cibo Italiano troverete un esauriente articolo sui benefici di questo prodotto e di quelli della sua famiglia, le Crucifere, e tantissimi modi per cucinarlo!!

La ricetta è liberamente ispirata ad un’altra di Laurel Evans, ma  l’ho personalizzata ben benino. Invito anche voi a fare la stessa cosa e, magari, poi, fatemelo sapere, che mi fa piacere 😉

INGREDIENTI per 1 persona

80 g di cavolfiore crudo

1 limone non trattato (buccia e succo)

1 arancia non trattata (buccia e spicchi spellati)

2 noci o altra frutta secca

10 g max bacche goji (anche meno)

olio evo qb

sale fino qb

code di finocchio

pepe (facoltativo)

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Lavare il cavolfiore, scartando le parti dure e le foglie, ridurlo in farina in un frullatore. Condirlo a crudo con la buccia di limone e arancia, l’olio evo, il succo del limone e qualche spicchio di agrumi spellato. Aggiungere le bacche o uvetta, le noci. Regolare di sale e, se piace, anche pepe. Servire crudo a temperatura ambiente.

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Una zuppa di rape per il Calendario del Cibo Italiano

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Oggi sul Calendario del Cibo Italiano troverete diversi spunti per consumare al meglio le rape, qui da me le rape sono quelle verdi con le cime e ne avevo disponibili da agricoltura biologica, in particolare una produzione locale e a metro zero.

Niente di meglio di una zuppa calda per riconciliarsi con le basse temperature stagionali.

Perciò ho preparato una corroborante zuppa, aggiungendo del miglio, che è naturalmente privo di glutine, della zucca gialla e delle patate. Buonissima!

Vi lascio la ricetta e scappo a lavoro:

Per una porzione 

300 g di cime di rapa

100 g di zucca gialla a dadini

2 patate var Nicola a dadini

60 g di miglio decorticato

300 ml di acqua, oltre a quella per le rape

cipollotti locali qb

olio evo qb

sale qb

Dopo aver pulito e tagliato tutti gli ortaggi, sbollentare le rape in acqua salate e passare in acqua fredda, scolarle e tenerle da parte. In un tegame far andare i cipollotti con l’olio e aggiungere via via zucca e patate, infine le rape. Versare la quantità di acqua richiesta, già tiepida, e infine aggiungere il miglio.Regolare di sale. Cuocere a fuoco basso per 30 minuti.

Servire calda.

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Canederli senza glutine per il Calendario del Cibo Italiano

A Samuele.

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Non vi nascondo che lo scoglio più grosso per un celiaco è rappresentato molto spesso dai piatti tipici regionali, che proprio per il fatto stesso di essere tipici sono difficili da rielaborare senza glutine. Ma superare lo scoglio e aggirare l’ostacolo è tipico delle mamme, perciò ecco a voi un buonissimo piatto di canederli, ricetta “nordica” su una tavola salentina…non stupitevi neppure di questo, anche se è un’altra storia. Oggi il Calendario del Cibo Italiano ne avrà davvero per tutti i gusti! Buona Giornata Nazionale dei Canederli!

Canederli senza glutine al formaggio Fontal e quinoa

300 g pane raffermo senza glutine (per me fatto in casa) a dadini 1 cm

200 ml latte intero

2 uova

40 g di Parmigiano

200 g Fontal

1 cucchiaino raso di sale fino

1 pizzico di pepe nero macinato

1 galletta di riso sbriciolata

1 cucchiaio di farina di quinoa

Per il brodo

150 g di carote

1/2 cipolla bianca

2 patate

1 cucchiaio di olio evo

1 lt di acqua

sale q.b.

noce moscata q.b.

1/2 cucchiaino di zucchero nero

cannella in polvere

Dopo la cottura, filtrare il brodo e metterlo da parte. Con le verdure si può ottenere una salsina da aggiungere in forno per cuocere i canederli.

Preparare i canederli (su consigli trovati nel blog di Monica One cake in a million)

Versate il pane raffermo in una terrina. A parte unite le uova ed il latte a temperatura ambiente e sbattete leggermente; versatelo sul pane, mescolate bene e lasciate riposare, mescolando ogni tanto, per almeno 20 minuti.
Pulite il formaggio e tagliatelo a pezzetti molto piccoli, nell’ordine dei 3-4 mm.
Prendete la ciotola col pane ammorbiditoe verificate la consistenza: deve essere morbido

Aggiungete il parmigiano,  il sale, il pepe e la noce moscata e il Fontal. Mescolate velocemente, quindi unite la farina.
Impastate a fondo con le mani.

Il composto sarà leggermente colloso, rimangono dei piccoli residui sulle mani, ma pochissimi.
Scaldate il brodo.
Inumiditevi leggermente le mani e formate una sfera, prima roteando e poi pressando a fondo con le mani, che abbia un diametro di 4 cm.
Fate subito la prova di cottura, con il brodo che sobbolle, per 5 minuti. Il canederlo deve rimanere compatto, non sfaldarsi. Certo, magari perde un pezzettino di pane, ma non deve perdere la sua forma, altrimenti avete esagerato con i liquidi e la struttura non regge.Se ciò dovesse capitare unite un cucchiaio di pane grattugiato e rifate il test.
Io preferisco non aggiungere farina, o proprio poca, ed asciugare con il pan grattato.Se supera il test di cottura, prelevatelo dal brodo, assaggiate la consistenza finale, eventualmente aggiustate gli aromi e procedete con la preparazione delle altre palline.
Cuoceteli in due tornate, non ammassateli nella pentola e lasciateli venire a galla senza stressare troppo la temperatura del brodo.
Servite dopo i 5 minuti di cottura in un piatto fondo, 4 a testa, con brodo che li copra per circa la metà.

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Per amore del bergamotto.

Il gesto amorevole di proteggere un albero dal vento è antichissimo, e la Mitologia lo attribuisce alla dea sumera dell’amore, Inanna, anche dea della fecondità e della bellezza.

Il gesto di Inanna è stato ripetuto infinite volte nel corso dei secoli, soprattutto nei confronti degli alberi appartenenti alla famiglia degli Agrumi, sottratti al giardino degli dei da Eracle, che li usò come moneta di scambio per l’immortalità.

Fu una delle Esperidi, disperata custode di questo giardino, che raggiunse la Calabria con una pianta di arancio, attratta da quella lingua di terra sulla costa tirrenica che oggi corre per 75 km da Villa San Giovanni a Brancaleone sullo Ionio, zona di produzione dei bergamotti, dove questi agrumi misteriosi, nati probabilmente da una impollinazione casuale, crescono spensierati e naturali, da aver conquistato il marchio DOP.

Ripercorrendo velocemente le varie epoche storiche, partirei con voi dalla Casa del Frutteto di Pompei, le cui pareti affrescate propongono un’eterna primavera fatta di cedri pieni di frutti. Studi degli anni Settanta hanno infatti ipotizzato che limoni venivano coltivati in aria vesuviana contrariamente a chi attribuisce agli Arabi l’introduzione di questa specie.

Il contadino di epoca romana conosceva senza dubbio l’importanza di una buona esposizione come il privilegio dato da un muretto a secco di protezione. Nonostante i moralismi di Seneca, i suggerimenti di Columella, insieme alle ingegnose attrezzature dei giardinieri, hanno aperto la strada allo studio delle serre. Con la caduta dell’Impero, si perdono le tracce scritte  sull’uso di serre, ma l’Europa del XII si pregiava di ben 742 monasteri circercensi, i cui monaci si dedicarono anche a ricerche in campo agricolo, aperti anche alle innovazioni portate dai Saraceni, inerenti la genetica delle piante, nuove tecniche idrauliche e agronomiche, per non parlare degli interventi degli Arabi su Pantelleria e la probabile costruzione per mano loro dei jardini. Ogni jardinu un solo albero di agrumi, per proteggerlo dal clima ostinato.

Così gli agrumi conquistarono la Penisola, attraendo studiosi e viaggiatori. Allo stesso modo, risalendo in barca il lago da Salò a Gargnano, sarete incuriositi e attratti dal luccichio di serre di dimore bellissime, di grande pregio architettonico, come Villa Bettoni. Si chiamano limonaie, la zona del Garda ne è ricca. Tralasciando l’epoca medicea e l’Orangerie di Re Sole e della terra germanica, facendo una virata storica faticosa vi riporto in Piemonte, dove al suo ritorno dalla Sicilia, Vittorio Amedeo volle adornare la sua residenza di agrumi, essendosi innamorato del profumo inebriante del Bergamotto.  Fu così che nacque la Citroniera della Venaria Reale. Il Committente fu proprio Vittorio Amedeo II di Savoia, divenuto Re di Sicilia dopo il trattato di Utrecht del 1713, l’architetto era siciliano, Filippo Juvarra, realizzatore di un grande capolavoro architettonico, dopo la Cappella di Sant’Umberto, nota ai più.

Per amore del bergamotto siamo arrivati fin qui, in occasione della Giornata Nazionale celebrata oggi dal Calendario del Cibo Italiano, dove vi rimando per fantastiche ricette e maggiori informazioni.

A me premeva sottolineare l’importanza di un gesto gentile, fosse anche quello di proteggere un albero dal vento, perché la gentilezza ha certamente una radice divina.

Fonte

Limonaie, Orangerie·Serre di I. MALABARBA

Foto dal web


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Una storia “a macchia d’olio” e una ricetta pugliese per il Calendario del Cibo Italiano

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Avvicinandomi a descrivere un alimento come quello di oggi, l’olio extravergine di oliva, così caratterizzante per la mia terra, mi ritrovo come davanti ad un grosso tesoro, nascosto dal tempo che si deposita come un custode troppo egoista e ti sfida a sfidarlo. Eppure, dovevo solo raccontare “qualcosa”  …eccomi invece qui a togliere il camice e indossare i panni di un archeologo, di uno storico o di un turista per caso.

Tutto ha avuto inizio da una delle tante passeggiate domenicali a Gallipoli, quando il nostro piccolo ometto inizia a chiedere con insistenza :”Mamma, mamma, il frantoio ipogeo”.

E già, cosa vuoi che sia?

Dopo qualche minuto, eccoci sottoterra, nel senso buono, all’interno di ambienti scavati interamente nel carparo pochi metri al di sotto del manto stradale, ambienti ricchi di fascino e mistero, testimoni di un passato storico e commerciale della città, esclusivamente legato all’olio.

Sono due a Gallipoli i Frantoi ipogei, quello di Palazzo Granafei, di proprietà dell’Ass. Gallipoli Nostra, e che si estende per circa 200 mq sotto i palazzi di via De Pace  e quello di Palazzo Briganti, visitabile solo su prenotazione.

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A dire il vero, il Salento presenta un reticolo sotterraneo di “trappeti” in grotta, alcuni dei quali sono stati ritrovati all’ interno di castelli e palazzi e di cui non esiste ancora un catasto ufficiale.

D’altra parte, in epoche remote, abitacoli rupestri offrivano un sicuro rifugio per gli abitanti del luogo che si mettevano al riparo da invasioni barbariche, o in età bizantina utilizzati come luoghi di culto e solo successivamente questi ambienti furono  riadattati per la lavorazione delle olive e l’estrazione di olio.

Tutto il vicino Oriente, in realtà, custodisce testimonianze simili, come ha dimostrato negli anni ’80 una campagna archeologica nei pressi di Tel Aviv, dove, secondo gli studi condotti dal dr. Schafer-Schuchardt, sono state rinvenute un centinaio di presse di fattura filistea (1000 a.C.), per non dimenticare la diffusione anche in Grecia e nell’ attuale Croazia.

Il principio che ha guidato nel corso dei secoli il mantenimento dei frantoi in luoghi sottoposti lo ritroviamo già in De re rustica (I sec. d.C.) dell’agronomo romano Lucio Giunio Columella, secondo il quale <<I frantoi e i magazzini da olio devono esser caldi poiché ogni umore al calore si scioglie e si addensa al freddo>>. Questa temperatura doveva essere compresa tra i 18° e i 20 °C in quanto venivano favoriti due passaggi fondamentali nella lavorazione delle olive, il deflusso dell’olio quando la pasta doveva esser sottoposta al torchio, e la separazione dell’olio dalla “sentina” quando poi avveniva il suo deposito all’interno di pozzi di decantazione.

Questo prezioso alimento è diventato, nei secoli, basilare nella dieta mediterranea, grazie alla sua equilibrata composizione, che vede prevalere gli acidi grassi monoinsaturi, soprattutto l’acido oleico. Queste caratteristiche chimiche rendono l’olio d’oliva particolarmente adatto a proteggere vasi e cuore, nonché in grado di abbassare i livelli di colesterolo “cattivo”, favorisce la digestione e difende le cellule dall’invecchiamento.

L’olio extravergine è quello meno acido,

in cui l’acidità è inferiore all’1%. 

 

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Parallelamente alla lavorazione dell’olio, dovette fiorire il suo commercio, di cui, per tornare a Gallipoli, il Porto della “città bella” ebbe un ruolo da protagonista.

Notizie storiche negli Archivi Ufficiali si ritrovano solo successivamente al 1484, anno dell’assalto da parte dei Veneziani a Gallipoli, che fu saccheggiata proprio di olio in deposito nella città.

 

Notizie scritte si hanno a partire dal 1503, anno in cui nel porto salentino venivano imbarcate circa 3210 some di olio (1 soma è pari a 154 lt) con destinazione Venezia.

Fu nel corso del XVII sec che Venezia iniziò ad avanzare pretesa di esclusività per l’acquisto dell’oro liquido nostrano – gli unici a non esserne contenti furono i Genovesi.

Nel 1774 Venezia insediò a Gallipoli un vice Consolato per seguire la faccenda più da vicino. Il commercio dell’olio ormai costituiva una pingue entrata per la città e per le Reali Finanze Borboniche.

Una annotazione del Barone di Eisenbach, a Gallipoli nel 1767 riporta che, nell’anno precedente dal porto della città erano partite 1395 some di olio destinato a tutto il Regno di Napoli.

Da Gallipoli – e per il mondo- partiva la “Mercuriale” del prezzo legale dell’Olio d’oliva per tutto il Regno, mentre a Napoli nasceva nel 1780 una vera “Borsa degli olii di Gallipolicon validità in tutta Europa.

La Borsa degli Olii fu abolita successivamente con decreto Reale dopo oltre un secolo, nel marzo del 1895.

Le Cultivar   Sin dall’epoca romana, nel Salento si coltivano due cultivar principali di ulivo: l’ “Ogliarola”, chiamata anche Ogliarola Leccese o Salentina, e la “Cellina di Nardò”,detta anche Saracena.

Relativamente alle caratteristiche, che avrete modo di approfondire oggi sul sito del Calendario del Cibo Italiano, posso dirvi che la prima è una varietà più gentile e meno resistente a intemperie e malattie, la seconda è più rustica con alte rese di raccolto, ma poca resa in olio, nonché precoce nella maturazione e con un gusto più piccante che lo rende adatto nei condimenti a crudo.

Esiste una terza varietà, il Leccino che dà un olio più delicato e profumato, ottimo in preparazioni più ricercate.

Oggi si parla anche di biodiversità di olive pugliesi e se ne contano a decine!Parliamo ad esempio della Butirra di Melpignano, la Carmelitana,la Cerasola, la Ciddina, la Cima di Bitonto,la Cima di Calabria, la Donna Giulietta e tantissime altre, tutte da custodire. Ma questa è un’altra storia, come altra storia è il presente assillato da Xylella f.

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La ricetta che ho scelto per la GN dell’olio extravergine d’oliva, è legata al territorio pugliese, in particolare a quello salentino e costituiva anche la dieta degli operai del frantoio durante i mesi autunnali. Per non dilungarmi eccessivamente, non vi ho descritto le condizioni border line nelle quali queste persone dovevano prestare la loro manodopera, vi basti pensare che per tutto l’autunno e l’inverno si allontanavano dal frantoio solo un paio di giorni, nelle feste comandate, sia per i ritmi lavorativi molto intensi sia per il fatto di dover andare incontro ad un lungo processo di pulizia personale che vi lascio solo immaginare, tanto era unta la loro pelle.

I pasti venivano preparati all’esterno ed era cura del padrone del frantoio farli consegnare quotidianamente. Oltre i legumi, erano di gran consumo diverse verdure di stagione, tra cui:

RAPE  ‘NFUCATE

( Rape affogate)

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Ingredienti per 4/6 persone

2 kg di rape

1 spicchio d’aglio

peperoncino

olio extravergine d’oliva  (cv Ogliarola) q.b.

sale q.b.

Mondare le rape, prendere le foglie tenere e le cimette, lavarle, sbollentarle. In un tegame mettere l’olio, l’aglio e, quando l’aglio sarà imbiondito, buttare le rape e finire di cuocere a pentola chiusa col coperchio*. A cottura ultimata spolverare di peperoncino tritato finissimo.

* affogate si riferisce all’utilizzo del coperchio in fase di cottura, come se fosse uno strumento messo per “affogare” più che per cuocere 😉

Fonti

  1. De Rossi, Il contributo dei Porti Salentini allo sviluppo economico della Nazione Ed. Martano 1969
  2. Barletta, Guida pratica ai Trappeti sotterranei nel Salento, Capone Editore 2010
  3. L. Lazari, Cucina Salentina, ed. Congedo
  4. AA.VV., Cultura che nutre, ed. Giunti Progetti Educativi

 

 


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Per la GN delle pittole, la mia versione gluten free nel Calendario del Cibo Italiano

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Mi perdonerete la foto dal cellulare, ma oggi non potevo mancare su questa tavolata virtuale, che ogni giorno il Calendario del Cibo Italiano imbandisce tutti i giorni. Trattasi delle pittole, frittelle di farina che possono essere farcite in tantissimi modi:olive, capperi, cavolfiore, oppure lasciate “bianche” affinchè il goloso di turno possa gustarle rotolate dentro il miele… Una prelibatezza semplicissima da preparare ma gustosissima, tra le preferite di mio figlio, il mio celiachetto! E già, queste in foto sono senza glutine, un piccolo miracolo che posso realizzare quando voglio, per fortuna. A dire il vero,le prepariamo solo nelle Vigilie dell’Immacolata e di Natale.

A Taranto si preparano all’alba del 22 Novembre, giorno di Santa Cecilia: è una tradizione secolare.

Ecco come prepararle:

150 g di farina senza glutine

125 g di acqua tiepida

10 g di lievito di birra

un pizzico di sale fino

olio di semi per la frittura.

Preparare l’impasto con qualche ora di anticipo, perché deve lievitare, in questo modo:sciogliere bene il lievito nell’acqua tiepida e versare poco alla volta sulla farina posta all’interno di una terrina, lavorando con una forchetta (altrimenti vi si appiccicherà tutto sulle mani!). Lasciare riposare almeno due ore con coperchio e in luogo riscaldato. Per abitudine, avvolgo la terrina con degli strofinacci per tenerla al calduccio. Trascorso il tempo di riposo, l’impasto fermentato va fritto poco per volta, usando un cucchiaino bagnato in acqua per ottenere delle pittole più piccole e tutte della stessa misura. Buon appetito.


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Appuntamento col benessere per la GN dell’equilibrio in cucina. Un’insalata di miglio con ceci e zucchine per focalizzare.

Vi ripropongo questi “appunti” scritti tempo fa per un magazine ma sempre attuali e per questo motivo li condivido per il Calendario del Cibo Italiano nel giorno dedicato all’equilibrio.

L’attività fisica è fondamentale per mantenersi in forma. Il segreto la costanza unita alla moderazione: se siete agli inizi, brucerete pochi grassi, ma vi basteranno quattro settimane e potrete smaltire una quantità fino a cinquanta volte superiore a quella iniziale, non disperate.

Col tempo di allenamento, aumenteranno gli enzimi che demoliscono il nostro grasso, vedremo così sviluppare la massa magra, che potrete far misurare con un semplice test bioimpedenziometrico, rivolgendovi a un professionista della nutrizione.

Correre mezz’ora alla settimana serve a ben poco, ahimé. D’altra parte anche i maratoneti veri e propri, con i loro 120 km a settimana, vanno incontro a qualche rischio, sottoponendo a dura prova il proprio sistema immunitario.

Il corretto approccio è quello che sta nel mezzo, in medio stat virtus. Bisogna programmare la propria attività fisica in maniera calibrata, senza sforzi eccessivi e scegliendo un lavoro vario e leggero, alternando dunque nuoto a tennis, jogging e bicicletta con un’andatura moderata. Meglio prediligere dunque le attività fisiche più dolci, a cui si può aggiungere la ginnastica a corpo libero, l’escursionismo e alcune arti marziali, come il Tai Chi Chuan.

Personalmente amo il Pilates, di cui ho potuto apprezzare i benefici effetti a lungo termine, al pari dello yoga: questa disciplina equilibra mente e corpo in profondità e tonifica molto bene la zona lombare. Ricordate di allenarvi almeno 30 minuti ogni due giorni, prestando attenzione a come il vostro corpo risponde e al modo in cui respirate, ottimizzando al massimo le qualità ossigenanti dell’attività fisica che avete scelto.

L’obiettivo che da qualche anno il nostro Ministero della Salute auspica sono i famosi diecimila passi giornalieri, che si possono misurare con i contapassi, piccoli misuratori della distanza giornaliera percorsa, di facile reperibilità e basso costo. Non sono necessari, ma aiutano a creare consapevolezza sul nostro stile di vita.

La sedentarietà non aiuta il nostro benessere, mentre la regolarità nel movimento protegge sia il nostro cuore che il nostro sistema immunitario, rafforzando entrambi, i nostri muscoli riacquistano tono e vigore, ci liberiamo dell’adrenalina accumulata nel corso della giornata.

Le donne che si allenano almeno mezz’ora al giorno per quattro giorni a settimana- semplicemente camminando- riducono, ad esempio, il rischio di infarto.

Chi fa sport non deve saltare i pasti e deve mangiare due ore prima e trenta/sessanta minuti successivi lo sforzo fisico, prediligendo alimenti leggeri ma energetici, aumentando l’apporto di frutta a circa ½ kg. Le verdure sono utili per reintegrare i sali minerali persi in allenamento, e a rifornire di antiossidanti.

 

Per 4 persone

200 g di miglio, 400 ml di acqua, 1 zucchina, 230 g di ceci già cotti, 1/2 cipolla bianca, 200 g di pomodori, 4 cucchiai di olio evo, sale qb.

  1. Bagnare il miglio, scolare l’acqua in eccesso e tostarlo per qualche minuto. Aggiungere l’acqua calda e già salata, lasciando cuocere a fiamma bassa per almeno 20 minuti. A cottura ultimata, sgranare con una forchetta e condire con un po’ di olio.
  2. Mentre il miglio cuoce, lavare le zucchine, tagliarle a cubetti, tritare la cipolla, farla imbiondire nell’olio rimasto, aggiungere le zucchine e lasciar cuocere a fiamma bassa, aggiustando di sale.
  3. Lavare e tagliare i pomodori, infine condire il miglio con questi ultimi, le zucchine e i ceci. Aromatizzare a piacere. Servire calda oppure fredda.